LOCOROTONDO COME ERA

Estratto dallo scapolo dei ricordi N.14 di Angelo Giorgio Mutinati

 

Questo angolo di Paradiso, nel periodo della mia fanciullezza, era delimitato nella maniera che vi sintetizzo. A Nord, finiva con le case della Via Cavour, ed io ricordo perfettamente che, affacciandomi dalle finestre della casa di Zia Annunziata, la vista spaziava verso Laureto ed il mare. Affacciandomi dalla casa di zia Petronilla, vedevo la via Cisternino, ove “Paul’ Mest’ Traiin’ “” – Paolo maestro dei traini – Paolo Smaltino, eccellente e rinomato fabbricante di carri da traino – costruiva i traini e riscaldava i cerchi nei quali infilare le ruote, adagiandoli sulla carreggiata della strada, deserta, oltre la quale, era campagna.

Quindi, percorrendo la via per Cisternino, a destra vi erano le case ed a sinistra era campagna: l’unico corpo di fabbrica esistente, era la cabina elettrica. Oltre tale cabina, era tutta campagna. La scalinata che congiunge Corso Cavour con la Via Cisternino, subito ad Est del largo della “Ruotella” (vi era la ruota per la raccolta dei neonati indesiderati), era chiamata “a’ schel’ d’u maccill’ ” – la scala del macello – perché l’edificio posto ad angolo fra detta scala e la via per Cisternino, ora adibito a bar e/o ritrovo, era il macello comunale.

Superata la chiesa di San Rocco, anche la fila delle case a nord di Corso Cavour, fino alla chiesa della Greca, finiva, a Nord, sulla campagna. La piazza davanti alla chiesa Greca, era stata ricavata sul sito dove prima era il vecchio cimitero.

 

Ad Est, cioè alle spalle della Chiesa della Greca, era campagna. L’attuale piazza Mitrano era un campo sul quale si svolgevano le fiere del bestiame; infatti, era comunemente noto come “Largo Fiera”. Di fronte (verso Cisternino) ed a Sud (verso Martina), era tutta campagna.

A sud, il centro abitato era delimitato, come ora, dalla Via Nardelli (Lungomare); seguiva la villa comunale; quindi, a sud dello stradone, fra la villa e l’edificio scolastico, vi era una serie di locali al piano terra.

 

Tutta la piazza del Municipio, era un grande slargo aperto sulla libera visione della serra. Questa piazza, denominata “u’ llarie’ d’ Sant’ Piit’ “ – il largo di San Pietro – era suddivisa in un sistema molto armonico di piazzuole collegate da gradinate; in quella centrale, vi era la vasca ornamentale: per questo motivo, quelli della mia età, la chiamavano “abbasc’ a’ vasch’ ” – abbasso alla vasca -. Era il luogo preferito per i nostri giochi. A valle di questa piazza, estesa fino all’attuale limite settentrionale del Municipio, vi era una strada ed un grande spiazzo erboso, ove sostavano le giostre durante le feste. Ad Ovest, il paese terminava sul “largo delle taverne” (abbasci’ o’ llarie di taverne) – giù al largo delle taverne -, che era l’attuale piazza Marconi.

 

Questa piazza era delimitata a Nord dal palazzo Agrusti e da una serie di fabbricati al solo piano terra, tranne il palazzo terminale ad angolo della via di Fasano, che era la casa ed ambulatorio di don Michele Campanella. Ad Ovest vi era, isolato, l’ospedale; oltre, era aperta campagna. Sul lato sud, di fronte all’ospedale, vi era uno stabilimento vinicolo (“Sparisc’ “ – Curri, poi trasferitosi nella stabilimento Mitrano sulla via Stazione), poi, vi era il mulino di “Pasquel’ catarrin’ “ – Pasquale Sampietro – e, infine, una serie di ampi locali al piano terra destinati a taverne, donde derivava il nome del largo “u’ llarii’ di tavern’ “.

 

Locorotondo ha sempre avuto la maggior parte della popolazione residente stabilmente in campagna. Un Popolo di formiche operose, parsimoniose ed infaticabili, dotato di una dignità superiore ad ogni immaginazione, il cui sudore, mai risparmiato, ha sempre emanato il profumo sublime della fatica ed il calore della generosità e della fratellanza autentica e sentita. In paese si veniva al mercato, il quale ricorreva di domenica (non era concepibile interrompere la settimana lavorativa) e si svolgeva lungo lo stradone (c.so XX settembre); oppure, si veniva al paese nelle maggiori feste, o per eccezionali necessità.

 

Moltissimi, meno abbienti, raggiungevano il paese a piedi, talvolta scalzi, ma, comunque venissero, avendo sempre cura di portare, in un sacchetto, le scarpe buone da indossare all’ingresso, in una commovente forma dignitosa di autorispetto e di rispetto. Il mezzo usato per raggiungere il paese, era il calesse – “a’ sciarrett’ “ – per i più benestanti, oppure “u’ sc’rrabball’ ” – un calesse con ripiano bagaglio posteriore -, oppure “u soprammoll’ “ – un traino con delle primitive sospensioni a balestra -, oppure “u’ traiin’ “ – il carro da trasporto vero e proprio.

 

Giunti in paese, bisognava parcheggiare il veicolo (cosa che, tranquillamente, avveniva al bordo della strada); ma bisognava custodire la bestia (cavallo, o mulo o asino), la quale non poteva essere lasciata attaccata per lungo tempo. I locali posteriori di detti ampi locali, erano, appunto, destinati al ricovero temporaneo del bestiame. Le taverne, però, servivano anche come stazione di posta per i trasporti a trazione animale intercomunali.

A latere del ricovero delle bestie da tiro o da soma, però, le taverne offrivano anche la ristorazione. Ricordo benissimo la taverna “della Romana”, posta proprio a fianco dell’attuale Cassa Rurale, e quella “da’ Campion ‘ ”, ubicata all’inizio della via per Cisternino, di fronte al palazzo Agrusti.