TELEFONO NERO
FANTASMI / SPIRITI DEI MORTI
Eravamo in tre, era quasi sera, stavamo in un bosco. Portavamo le luci all’acetilene, di quelle che mettevi il gas sotto e l’acqua sopra e siccome avevamo finito l’acqua; ci siamo fermati ad un foggione, un pozzo grande d’acqua. Vicino stavano gli abbeveratoi per gli animali. Mentre stavamo mettendo l’acqua nella luce, nella lanterna. Sono arrivati 7 cavalli neri. Scalpitavano e non facevano rumore. Manco ho finito di dire all’amica mia che era uno spirito, che quelli sono spariti. dopo poco ritornano. Io, comincio a lanciare pietre contro, ma quelli niente, non si facevano niente. Così, correndo, con la lingua a terra, siamo arrivati alla masseria vicina al bosco e gli abbiamo detto il fatto al padrone della masseria. Quello ci ha raccontato che tempo fa in quel posto un uomo prese sua moglie e la gettò giù nel pozzo. da allora là appare lo spirito della donna che si presenta come cane, come gatto, come cavallo..di sicuro…di sicuro esce sempre.
Ci sono spiriti che non conosci. Un giorno stavo lavorando la terra e arriva un cane bianco con le macchie marroni. Mi guardava e non si avvicinava. Lo cacciavo e non si muoveva. E’ rimasto con me per un pò di tempo, poi non l’ho visto più. Sono tornato un altro giorno e gli ho portato dei taralli. non li ha mangiati. Ho continuato a lavorare ed è sparito di nuovo, nel nulla. Un giorno si è avvicinato e mi è sparito davanti agli occhi.
Ci sono spiriti che non conosci, possono essere soli o accompagnati. Quelli soli li puoi vedere con giacche di flanella in piena estate che raccolgono rami, dandoti le spalle. Quelli soli possono essere bambini che miagolano. Se non sono animali, sono ombre nere che camminano sui muri venendoti incontro, o che ti aspettano nel posto in cui stai andando. e se non sono ombre non li vedi, ma parlano e come parlano! Parlano ma tu non capisci niente.
Ci sono spiriti che sembrano persone come a te, ci sono spiriti che diventano amici a furia di vederli.
Un giorno camminavo con i miei cani in una zona desolata in mezzo alla campagna, quando vedo un signore alto, magro con una camicia a quadri. il fucile un metro più alto della testa, di quelli vecchi, che si usavano una volta. Quello quando mi ha visto, se n’è scappato. I cani che erano con me, stranamente, non hanno abbaiato. Mi sono messo a scappare insieme. Lo chiamavo, non mi rispondeva. Sulla terra non c’erano impronte. c’erano le mie, ma non le sue. Sono tornato a casa e c’era mia madre. le ho raccontato il fatto. “Eh a cosa vai pensando, quella è l’anima di Ciccio”. Ciccio era un amico di mia madre, classe 1915. Era un ragazzo, alto, magro, un giorno, era estate, stava lavorando nei campi, qualche giorno prima avevano tagliato un albero di quercia grosso , ma avevano lasciato il lavoro a metà. Ciccio stava zappando proprio là sotto quando è arrivato un vento forte . è caduto l’albero. Ciccio si è trovato sotto ed è morto. “Non avere paura che quello ciccio è.”
Molti conoscevano Ciccio. E tutti sapevano che bastava chiamarlo e quello spariva.
Ci sono spiriti che diventano amici a furia di vederli, ma a differenza dei soliti amici, la loro voce ti impressiona come la prima volta che li hai sentiti.
Un giorno sono tornata con un amica mia in quel campo, a cacciare ricci. Non siamo arrivati a prendere i ricci. Appena arrivati sul monte, abbiamo sentito tutte le voci che ragionavano giù nella vallata, in un modo che risuonava tutta la zona, come una cosa planetaria. parlavano, parlavano queste voci, tu non capivi niente. Parlavano parlavano. Erano voci armoniose. quando parlavano loro, c’era una pace enorme. Noi ci incantavamo a sentire queste cose. Qualche giorno dopo un pastore mi ha raccontato, che prima, là stava un paese intero.
`A IURE
A Iure? Asist aggiust. Esiste veramente.
Viene sempre di notte.
Dice che è come una gatta.
Io non l’ho vista, ma veniva da me.
Veniva mentre dormivo. si metteva sul petto e mi soffocava, io facevo per svegliarmi, ma non ci riuscivo. Così mentre dormivo combattevo con questa cosa che non riescivo a prendere. E quando mi sembrava che la stavo per prendere, mi svegliavo, però quella ormai non ci stava più. Spariva. Oppure se la mattina mi svegliavo e avevo dei lividi sullle gambe o sulle braccia che la sera prima non avevo, voleva dire che era venuta a iure. E poi faceva scherzi, per esempio ai cavalli, alla criniera dei cavalli, trovavamo le trecce la mattina. E chi glieli faceva? Non esiste un animale che intreccia, se no gliele favamo fare da un topo, o da una donnola queste trecce.
Dice che nelle case dove stava il crocifisso non veniva, noi 3 ce ne avevamo di crocifissi, ma quella veniva lo stesso. Mia madre, un giorno disse “mu ma acchiè a drett pure a chere”, “mò, la dobbiamo sistemare a quella”.
Mia madre conosceva i modi per allontanarla la Iura. Si sedeva sop o cantre, sul catino e mentre defecava diceva “Iura megghie d chese, vine ddò cà t’ha mangie pene i chese”, “Iura mia di casa, vieni qua, che devi mangiare pane e formaggio”.
IL TEMPO
“Tuono datti indietro dalla casa di san pietro, san pietro e san pone, la casa di nostro signore” Mia nonna ha insegnato a tagliare il tempo a mia madre, che poi lo ha insegnato a me. Dall’inizio dell’estate, fino alla vendemmia se veniva il tempo brutto, questo bisognava allontanarlo per salvare l’uva da raccogliere. Quando si vedevano le prime nuvole, o si sentivano i primi tuoni, mia nonna, scialle nero in testa, prendeva il coltello che teneva sopra la porta, se ne usciva di casa scura in volto, sussurrando certe parole “Tuono datti indietro dalla casa di san pietro, san pietro e san pone, la casa di nostro signore” la vedevo salire sul tetto ripetendo quelle parole, una volta là, quelle parole si confondevano a certe altre parole che non capivo, poi le parole alle urla. Come un diavolo, tutta vestito di nero, mia nonna urlava contro quei lampi che squartavano il cielo.
” ‘a vocia seggue ha ntrunè chiù fort dì trune stess”, diceva mia madre.
Chiedeva a quel tempesta di andarsene verso il mare, lontano dai propri raccolti.
Le urla di mia nonna, poi, creavano un’arcobaleno che nasceva e moriva proprio nel campo nostro.
Questa formula gliel’aveva insegnata uno dei monaci che girava per le campagne a chiedere l’elemosina, che prima le campagne erano piene di persone che chiedevano l’elemosina.
Era tempo di vendemmia. I monaci quella mattina arrivarono con un motocarro, sopra avevano caricato una cisterna vuota( ‘a carrizz) E andavano chiedendo ai contadini di riempirgliela.
Quel giorno, i monaci si fecero il vino per tutto l’anno e qualche povero cristo, tra cui mia nonna imparò le parole per tagliare il tempo, per proteggere per sempre i propri raccolti.
Dice che quel giorno qualcuno il vino non gliel’aveva dato, dice che i monaci, andandosene, ripetevano erte paole sottovoce, dice che fecero creare delle nuvole piene di pioggia e grandine che distrussero i raccolti di quelli che il vino non glielo avevano dato.
I VERMI
I vermi, chi te li sapeva togliere, sapeva pure farteli venire.
Era una pratica che curava, serviva a tagliare i vermi che tenevi nella pancia. Te ne accorgevi, che ce li avevi i vermi, perchè avevi sempre mal di pancia atroci.
C’era chi li tagliava passando l’aglio e l’olio sulla pancia.
Mio padre li tagliava addosso, ma pure a distanza.
Quello che diceva, io, non l’ho mai saputo; quello che potevo sentire erano nomi di santi.
U discev citta citt, Lo diceva zitto zitto. E faceva Croci sulle unghie dei suoi pollici. Bisognava stare zitti se no si imbrogliava. Se gli veniva a lui il mal di pancia, ruttava, o andava in bagno, voleva dire che la persona ce li aveva i vermi. E a lui venivano certi mal di pancia forti che potevano durare giorni. Curava gli altri prendendosi il male sul suo corpo.
Quante volte di notte veniva il vicino per far tagliare i vermi al figlio appena nato.
A lui glielo aveva insegnato uno zio suo. a me non me l’ha insegnato, diceva che era troppo doloroso. Così, visto che potevi insegnarlo a un’altra persona e solo a una, lo insegnò a suo nipote, maschio.
Che i vermi, chi te li sapeva togliere, te li poteva pure far venire.
Una volta, mio padre era giovane, cercava moglie. Una sera stava ai balli. Andò ad invitare una ragazza Rosetta, una ragazza che viveva vicino a casa sua; quella accettò l’invito al ballo, ma una volta in mezzo al cerchio, questa gli fece una smorfia, si girò e se ne andò, lasciandolo in mezzo in mezzo, davanti a tutti. Mio padre, quella sera, se ne tornò a casa e si mise a intrecciare i vermi nella pancia di Rosetta, a distanza. Quella stessa notte, la madre di Rosetta andò a casa di mio padre per far tagliare i vermi alla figlia che non si riusciva ad alzare dal letto per i dolori. Mio padre, allora fu costretto a tagliare i vermi a Rosetta.
Che i vermi chi te li sapeva togliere, te li sapeva pure far venire.
AFFASCINO
Ti accorgi che c’hai l’affascino quando ti senti debole, troppo rilassato, con una specie di mal di testa, non riesci a fare niente, sei lento, ti senti legato da qualcosa, ti senti triste.
Quello vuol dire che qualcuno ti ha affascinato, cioè che qualcuno ti ha guardato con l’invidia. L’affascino passa per gli occhi. Certe volte questo sguardo d’invidia può essere pure non voluto.
Io per togliere l’affascino, dico certe parole che nessuno può sapere, sono preghiere che dico, e faccio così: prendo un piatto e lo riempio d’acqua, poi metto dentro tre pizzichi di sale, poi faccio cadere tre gocce d’olio. Se l’olio si spande, vuol dire che ti hanno affascinato, se non si spande, vuol dire che non è affascino. Se due gocce di olio si accoppiano è il malocchio.
Il malocchio è peggio dell’affascino. è una critica sulla persona. Quando hai il malocchio, te lo faccio addosso per fartelo passare. Sulla persona.
E poi c’è chi lo fa solo addosso l’affascino, ti fanno le croci sulla fronte e sulla schiena. Se ce l’hai, chi te le sta facendo, sbadiglia.
Per farti passare l’affascino, te lo devono fare in tre. All’altra persona non dici niente che te l’ho fatto io la prima volta. se te lo fai rifare, la seconda persona non ne deve sapere niente che te l’hanno già fatto e pure la terza.
Nan già passè u sabet. non deve passare il sabato. Se passa il sabato da quando ce l’hai, diventa più brutto, è più difficile toglierlo.
Poi, ci sono certe volte che ce l’hai così forte, che quello che faccio io non basta, allora devi andare da certe persone che sanno fare ancora altre cose per toglierlo.
Certi di questi erano pure preti, quelli, prima ti sgridavano e poi di nascosto facevano questa pratica. Io un prete che faceva questa cosa l’ho pure conosciuto, ma…..non si può dire.
TELEFONO BIANCO
IL CAPITOLO
Il capitolo era l’organismo riconosciuto dalla Chiesa che raccoglieva tutti i preti presenti in un determinato luogo (in una città, un paese, ecc); secondo il diritto canonico infatti tutti i preti dovevano organizzarsi in un ente giuridico – il capitolo appunto – a capo del quale c’era l’Arciprete, nominato dal Vescovo, e che non sempre coincideva con il parroco.
Dove c’erano molte parrocchie (città oltre i 30.000 abitanti) il Capitolo era l’organo giuridico che raggruppava appunto tutti i preti presenti.
A Locorotondo c’era l’Arcipretura Curata dove l’Arciprete era anche il Curato della Parrocchia, il parroco appunto.
La parrocchia di Locorotondo era pertanto curata dal Parroco e in genere da due Sacerdoti, identificati come vice-parroci.
LA CROCE DEL CAPITOLO
Anticamente per celebrare i funerali si pagava una sorta di “tassa”, pertanto si poteva identificare il ceto sociale di appartenenza del defunto in relazione allo sfarzo della cerimonia. La croce capitolare era la croce che apriva il corteo dei sacerdoti, il capitolo appunto, ed era in argento con incisioni raffinate; la partecipazione di tutto il capitolo alla cerimonia funebre indicava che il defunto apparteneva ad una delle classi sociali più altolocate.
Per funerali più modesti – che non prevedevano alcn tipo di pagamento – invece era prevista la partecipazione di un solo sacerdote accompagnato da un chierichetto, o dal sagrestano e veniva portata una semplice croce in legno con un crocefisso in metallo e il “secchietto” per l’acqua santa.
LA CASTELLANA
La castellana era una struttura che si ergeva al centro della Chiesa durante i funerali, il settimo (settimo giorno dopo il funerale) e il trigesimo (un mese dopo il funerale); molto raramente durante l’anniversario annuale, mentre non si usava per la celebrazione del terzo (tre giorni dopo il funerale).
L’origine del nome è incerta, potrebbe derivare dal fatto che, ergendosi in altezza, era assimilata ad un castello. Era una struttura in legno eretta al centro della Chiesa e poteva avere diverse dimensioni, in proporzione al pagamento effettuato per il funerale.
Per le classi sociali più povere era rappresentato da un tavolo con una coperta nera su cui veniva poggiata la bara e si accendevano 4 candele; mano a mano che si saliva nella scala sociale venivano aggiunti fino a tre ripiani, l’ultimo – per le classi più altolocate – raggiungeva un’altezza pari a quella dei candelabri attualmente presenti nella Chiesa Madre.
Naturalmente mano a mano che “cresceva” la Castellana aumentava anche il numero delle candele che poteva arrivare fino a 300/400. Tale differenza tra i ceti derivava sostanzialmente dal fatto che allora le parrocchie non avevano alcun tipo di sostentamento, non esistevano stipendi per preti e sagrestani, le uniche entrate derivavano dalle celebrazioni. Pertanto la possibilità di far pagare di più a che ne aveva la possibilità diventava l’unico modo per non far pagare chi non se lo poteva permettere.
LE TRE CHIAVI
L’altare che ora è vicino all’ingresso della sagrestia era l’altare maggiore – quello dell’Assunta – della Chiesa cinquecentesca. Sull’altare vi è una piccola porta in legno chiusa a chiave ( rifatta sullo stesso telaio di quella originale che aveva una lamina d’argento che purtroppo è stata rubata) che conteneva la reliquia di San Giorgio. Le chiavi erano 3 ed erano possedute dalle più alte cariche locali: l’Arcivesco, il Sindaco e il Pretore. Il Sindaco e il Pretore si ritrovavano il giorno del dono, la vigilia della Festa di San Giorgio, e consegnavano le chiavi all’Arciprete che estraeva la reliquia per esporla sull’altare, dove vi rimaneva anche il giorno seguente . Il giorno successivo alla festa veniva riposta all’interno della porta e le chiavi erano nuovamente redistribuite tra le alte cariche.
LA CHIESA GRECA
La Chiesa Greca, da un punto di vista strutturale è rimasta invariata, ciò che è cambiato è il contesto, infatti un tempo era considerata “fuori paese”, alcuni disegni di turisti del ‘700 ne sono testimonianza. Ad un certo punto della sua storia la zona attorno alla Chiesa Greca fu adibita a cimitero, poi negli anni 60 dell’800, quando il paese fu devastato dal colera, all’interno della Chiesa misero i cadaveri, senza sepultura alcuna, e sigillarono tutte le aperture. Quando fu istituita la Confraternita di San Rocco il parroco assegnò ai confratelli la Chiesa Greca, poiché la Chiesa di San Rocco doveva rimanera alla comunità. I confratelli dovettero quindi disinfestare la Chiesa, seppellirono i cadaveri e riaprirono le poche aperture tra cui il rosone, e probabilmente fu proprio allora che sparì il rosone scolpito. Il rosone “scomparso”, molto simile a quello attualmente presente sulla facciata della Chiesa, si dice fosse identico a quello della Concattedrale di Sant’Eustachio di Acquaviva delle Fonti.
LE CONFRATERNITE
Le confraternite erano riservate agli uomini, le donne infatti non erano ammesse, c’erano le consorelle che però non partecipavano alle liturgie e non avevano abiti particolari ma potevano godere dei benefici delle Confraternite: la messa alle esequie, la sepoltura (le confraternite avevano infatti delle cappelle) e la messa all’anniversario. A Locorotondo le confraternite erano: Addolorata, Annunziata, Sacramento, Purgatorio e San Rocco (quest’ultima è la più recente). Quella di San Giorgio non esisteva poiché era il Capitolo che si occupava delle attività devozionali legate al santo.
Le confraternite, enti giuridicamente riconosciuti, gestivano anche cospicue cifre economiche, derivanti da donazioni ed eredità. Potevano avere scopi devozionali o caritativi: i primi indicavano la promozione del culto dei Santi a cui era rivolta la devozione, mentre i secondi indicavano intenti e opere di carità, ad esempio la Confraternita del Purgatorio si impegnava a dare sepoltura ai poveri.
LE PROCESSIONI DEI VENTI
Un tempo c’erano quattro processioni dei Venti chiamate così poiché si benedicevano i quattro punti cardinali – presenti sulla Rosa dei Venti. Le prime tracce di tali processioni si ravvisano in Francia nel Medioevo, e consistevano in benedizioni della campagna, volte a propiziare i raccolti. Durante le processioni si eseguivano le litanie maggiori e le litanie minori, venivano cioè cantate le storie dei Santi. Quelle minori si facevano il lunedì, il martedì e il mercoledì prima dell’Ascensione e la processione iniziava dalla Chiesa Madre, proseguiva lungo porta nuova, poi via nardelli, quindi lo “stradone di San Rocco” e si concludeva in una delle Chiese presenti nel centro storico: l’Addolorata, l’Annunziata o la Chiesa Madre dove si celebrava la Santa Messa. Le Litanie Minori coincidevano con le “Feste di Primavera”, mentre le Litanie Maggiori si svolgevano il 25 Aprile e rappresentava la processione più solenne.
Le preghiere erano tutte rivolte alla benedizione della campagna, al fine di allontanare le interperie e propiziare un buon raccolto.
SANTA FELICISSIMA
Santa Felicissima era, insieme a San Giorgio, compatrona di Locorotondo, non abbiamo mai avuto delle immagini ma ci sono le reliquie, custodite nella cripta sottostante l’altare maggiore. Le reliquie erano portate in processione quando non pioveva, infatti il culto era legato all’andamento dei raccolti e alla campagna in generale. Durante la processione le reliquie di Santa Felicissima erano portate dai canonici, gli appartenenti al Capitolo, mentre la reliquia di San Giorgio era portata dall’Arciprete. La processione faceva lo stesso percorso di quella dei Venti, poi ritornando in Chiesa Madre le reliquie di entrambi i Santi erano poggiate ad un tavolo posizionato sul lato sinistro dell’altare maggiore, e li vi rimanevano fin quando non pioveva.
La tradizione diceva che entro 8 giorni dalla processione avrebbe piovuto.
LA SACRALITA’
La consuetudine antica prevedeva che le Chiese venissero costruite sempre sullo stesso luogo poiché era stato consacrato, apparteneva cioè a Dio e pertanto era Sacro. L’idea sottesa a questo uso è che ciò che appartiene a Dio non può essere toccato da nessuno – idea presente anche nelle religioni pagane e in quella ebraica.
A tal proposito il racconto che San Matteo fa rispetto alle intenzioni di Giuseppe in seguito alla scoperta della gravidanza della Madonna presenta una contraddizione: infatti San Matteo nei suoi scritti sostiene che Giuseppe era estremamente ligio alla legge, tuttavia se così fosse, avrebbe dovuto denunciare, secondo gli usi dell’epoca, la Madonna in quanto adultera, invece nel medesimo racconto si legge che Giuseppe è intenzionato a cacciarla ma in segreto.
Successivamente gli appare l’Angelo che gli dice: “non aver paura di lei perchè ciò che è lei viene dallo Spirito Santo”, il perchè nella lingua italiana può essere indice di causa o di fine, nel primo caso quindi il messaggio si può interpretare come “non aver paura di lei a causa del fatto che ciò che è in lei è dello Spirito Santo”, questa interpretazione potrebbe indicare che Giuseppe abbia compreso di trovarsi di fronte alla profezia di Isaia, e pertanto di non poter più “toccare” la Madonna in quanto appartenente a Dio.
Questo è il concetto della sacralità.
Noi abbiamo notizie di 3 Chiese: la più antica, che doveva risalire intorno all’anno mille, era simile a quella presente a San Marco, la seconda Chiesa, costruita sui resti della prima intorno al 500, doveva essere molto simile alla Chiesa Greca ed era molto ricca di sculture litee ( attualmente si trovano sulla Chiesa dell’Addolorata, sul Campanile e alcune addirittura murate in case di campagna). La seconda Chiesa venne abbattuta intorno alla fine del ‘ 700 e sulle sue rovine venne costruita la Chiesa Madre, così come la conosciamo oggi.
Da alcune ricostruzione fatte da Baccari la Chiesa è rimasta sostanzialmente invariata, ad eccezione del presbiterio, che era più elevato e vi si accedeva da due rampe laterali. Inoltre al centro era posta una porta che portava nella cripta e davanti si trovava una cancellata in ferro battuto, sul retro si trovava l’altare.
LE BANDE
Le bande avevano una grande importanza, si può dire che non esistevano paesi senza bande – più o meno preparate professionalmente – questo anche perché i funerali senza banda erano inconcepibili, così come le numerose processioni (alcune ormai dimenticate), erano in poche parole l’unica forma di intrattenimento esistente. I bandisti normalmente non erano professionisti – era difficile infatti ricavare la propria sussistenza dall’attività bandistica – e prevalentemente appartenevano alla classe artigiana. (calzolai, barbieri, ecc). Talvolta qualcuno eccelleva a tal punto da far divenire l’attività bandistica un vero e proprio mestiere, suonando nelle bande più quotate. Locorotondo aveva una banda molto importante, tra i migliori maestri ricordiamo Gidione e Curri, che riuscirono a portare la banda a dei livelli altissimi. Il maestro Curri fece un sunto della Boheme che mandò a Giacomo Puccini, il quale gli scrisse una lettera per congratularsi con lui per il lavoro fatto, ritenendolo uno dei migliori sunti da lui mai visto. Cataldo Curri incorniciò la lettera e ogniqualvolta girava con la banda la teneva esposta.
Locorotondo, avendo delle bande così riconosciute, era una piazza molto ambita, inoltre la festa di San Giorgio era una delle prime feste della stagione bandistica (aprile), pertanto parteciparvi rappresentava per le bande un lasciapassare per essere ingaggiati in altri eventi.
IL FULMINE
Era di maggio intorno agli anni ’20-’30 del 1900 … il fulmine ruppe la finestra, bruciò il “tosello” (trono) e la statua di Santa Rita di Guacci (uno dei migliori cartapesta del silenzio).